AIFO DI OSTUNI

IN CONVEGNO NEL MUSEO

ETNOGRAFICO DEI CAPPUCCNI A GIOVINAZZO

11.10.19




I Frati Cappuccini di Puglia sono presenti in Mozambico fin dal 1951

Fin dal primo momento in cui hanno messo piede sul “sacro suolo” mozambicano, hanno sentito il fascino della sua gente, della sua storia, della sua società.



Fin d’allora è cominciato “quel qualcosa” che si può definire “innamoramento” con il popolo mozambicano.



Fin d’allora è cominciato “quel qualcosa” che si può definire “innamoramento” con il popolo mozambicano.



Li hanno presi per la mano e li hanno condotti nel sacrario della cultura e religione tradizionale; nelle intimità delle loro cerimonie e dei loro riti; nei suoni e significati della loro lingua e nel senso della loro gestualità;



alla conoscenza dei loro racconti mitici e fiabeschi, alla interpretazione dei loro proverbi e delle lezioni di vita;




nella espressività della loro arte, dei loro manufatti e del loro artigianato; hanno offerto le loro nyumba (casa) per ripararli dalla pioggia ed un luogo sicuro per la notte…



I missionari ne hanno apprezzato la cultura, le tradizioni, l’organizzazione sociale, la lingua, la religione tradizionale; i suoni, i colori, i sapori, il cibo; gli odori, i gesti, la musica, la danza, la festa, i lutti, la quotidianità, il dolore, la gioia, l’amore;



le foreste, gli animali, gli alberi, i frutti; il cielo australe, le albe, i tramonti, il sole, la luna, le costellazioni del Sud, le stelle; il clima, il caldo, il fresco, l’umido, il secco, le piogge torrenziali, le siccità, i monsoni le queimadas (incendi);



i fiumi, i laghi, le montagne, l’oceano Indiano, le maree alte, le maree basse; gli immensi spazi del territorio disabitato, l’infinità dell’orizzonte oceanico…



Il “Museo Etnografico Mozambico-Africa” è il risultato di questo rapporto dialogante di stima e di fiducia reciproca, di apprezzamento e valorizzazione dei valori, di amicizia e di reciprocità.

I regali si conservano.



Gli oggetti sono lì a raccontare un rapporto di conoscenza e dono scambievole, dialogo e di reciprocità tra culture; di ricerca e di scoperta della ricchezza di cui un popolo è portatore, di godimento del bello “altro”, di dimensioni e significati nuovi di vita e di esperienza.



Essi hanno saputo scoprire il plusvalore umano, culturale, artistico che oggetti e manufatti contenevano in se stessi e li hanno gelosamente conservati e riproposti a beneficio di altre culture e dell’umanità.



Li hanno ricevuti in dono, li hanno chiesti, li hanno comprati, li hanno fatto produrre; li hanno cercati nei luoghi e situazioni più impensati partecipando a funerali, danze di iniziazione, a feste di matrimonio, alla fine di un lutto;



alla nascita di un bimbo, nei sacrifici rituali, nelle case di morti e feriti durante le due guerre, quella dell’indipendenza e quella civile;



nei riti di divinazione da parte di chi noi qualifichiamo col nome di “stregone”, nelle case dei nganga (curatori);



tra gli utensili di una donna che prepara il cibo, di un uomo che zappa il suo campo, che distilla la nipa (acquavite), che costruisce la sua casa, che tesse la sua stuoia, il suo cappello, il suo cesto, che intaglia una mwadya (canoa), che costruisce un giocattolo per il suo bambino.



I cantastorie con i loro strumenti, i gruppi di danza con le loro batterie di ngoma (tamburri), con le loro variamba e marimba (xilofoni);



gli ganga con i loro oggetti per la divinazione, sono stati coloro che hanno offerto le cose più pregiate e rappresentative di una cultura e di un popolo.