IL GRANDE VIAGGIO (4) Luabo: chiesa parrocchiale esterno (attuale) e interno (1971) Luabo! Qui è cominciato tutto! Arrivai in Mozambico con fra Camillo Campanella da Francavilla Fontana e fra Benito De Caro da Triggiano, il 18.08.1971. Qualche giorno dopo il superiore regolare del tempo, P. Gaetano Cristiano da Stigliano, ci diede la possibilità di fare un giro per le missioni insieme a fra Fedele Bartolomeo da Cirigliano. Dopo aver visitato Inhassunge, partimmo per Morrumbala. Poi passammo per Mopeia e infine arrivammo a Luabo. Luabo era immerso in un lago di verde: l’immense estensioni di canna da zucchero. Le piante di canna da zucchero alte più di due metri con un pennacchio bianco con sfumature di grigio. Controsole i fiori si tingono di striature di argento. Mi invase l’odore dolciastro, quando passammo vicino ad un campo di canna che prima di essere tagliato veniva bruciato per pulire lo stelo dalle foglie. Centinaia di uomini in un altro campo erano impegnati con grandi catane a tagliare la canna. Alcune macchine raccoglievano la canna e la sistemavano su una specie di vagoni trasportati da una motrice lungo una piccola ed efficiente ferrovia fino alla fabbrica. La Sena Sugar Estates (S.S.E.) era una grandissima impresa che produceva fino a 120.000 tonnellate di zucchero l’anno. Aveva un allevamento bovino con 30.000 buoi: la popolazione bovina era più numerosa della popolazione umana. Luabo era una ridente cittadina per il 95% proprietà della SSE suddivisa in quartieri. Il quartiere dei bianchi, autentiche villette. Il quartiere destinato ai mauriziani, indiani meticci e neri designati con la parola assimilados: case confortevoli ma molto più semplici. Infine gli accampamenti destinati agli operai stagionali mozambicani. Il restante 5% era formato da piccoli commercianti, impiegati comunali e piccoli artigiani con case private abitate da portoghesi, commercianti mussulmani di varie nazionalità. E poi c’era la tempa: la bidonville abitata dagli abitanti del posto i Apodzo un sotto gruppo della tribù Sena che parlava il Chipodzo un dialetto della lingua madre il Chisena. Il primo cronista della missione di Luabo, P. Atanasio Minervini da Molfetta, così apriva la cronaca: Luabo, etimologicamente: il fiore sul fiume! P. Atanasio insieme a fra Giuseppe Gaudioso, fondatori della missione di Luabo, erano stati preceduti da P. Antonino Prete da S. Michele Salentino che visse per qualche tempo in una modesta casa della SSE. Furono P. Atanasio e fra Giuseppe che costruirono con immensi sacrifici la casa dei frati, la casa delle suore, la chiesa, e poi, fiore all’occhiello il ginnasio-collegio S. Francesco d’Assisi. P. Cristoforo Campanella da Francavilla Fontana migliorò la residenza dei missionari trasformandola in una bellissima villetta. Non ricordo il giorno preciso in cui arrivammo a Luabo dove ci ricevette fra Giuseppe Gaudioso da Mola. Fece festa per noi, i nuovi arrivati. La gioia saliva nel termometro del cuore. Ma non feci nessun pensierino se scegliere questa missione dove cominciare la mia vita missionaria. Il fumo, la cenere, l’odore un po’ stucchevole di melassa e il rumore dei macchinari della fabbrica che il vento trasportava fino alla nostra casa, in certa maniera mi offuscava l’immagine ancestrale che mi ero fatta dell’Africa. Se avessi potuto avrei scelto qualche altra missione… Ma fu proprio qui che i superiori mi mandarono dopo il capitolo del 1971… qui cominciai a sognare i sogni che mi accompagnarono per 28 anni in giro per le varie missioni in cui ho vissuto il mio apostolato! A Luabo però arrivai nel febbraio del 1971 dopo aver passato 5 mesi nella missione di Inhangoma per lo studio della lingua Chisena. Molto mi piacque Morrumbala perché era una missione situata in una zona montuosa con una fantastica coreografia disegnata da “mostri” montuosi sbocciati da terra come funghi. Mopeia invece mi attraeva per la sua maestosa silenziosità. Immersa isolata nella foresta, di notte si potevano udire ruggiti di leoni e le chiacchierate di tutti gli animali della foresta. Mentre la missione riposava dalla fatica del giorno, la foresta brulicava di vita che ogni tanto strappava il silenzio della notte con i suoi ruggiti, fragori, strepitii e suoni misteriosi. Inhassunge con le sue piantagioni di palme da cocco e Chinde con il maestoso delta dello Zambesi mi lasciarono freddo. A Luabo vi rimanemmo per tre o quattro giorni dove ci eravamo dato appuntamento noi tre arrivati di fresco e gli altri quattro giovani frati arrivati l’anno prima (Fortunato Simone, Zaccaria Donatelli, Bruno Guarnieri, Fedele Bartolomeo) insieme a Fra Prosperino Gallipoli. Qui successe che Prosperino ebbe un incidente fratturandosi il bacino e il gruppo prese la decisione di eleggerlo come superiore regolare. E anche se infortunato, al capitolo di Quelimane, Prosperino fu eletto superiore della missione. Tutte queste immagini si riferiscono al lungo viaggio di 2500 Km. Da Nangololo al nord del Mozambico siamo scesi verso il centro. Dico siamo scesi perché, naturalmente non viaggiavo da solo. Fedele compagno di questa lunga sgroppata è stato fra Ernesto Simba di Nangololo. Lo conobbi la seconda metà del 1997 a Nangololo. Viveva con sua madre, vedova, nel villaggio 24 di Marzo. Aveva appena finito di frequentare il ginnasio. Era giovanissimo. Con sua madre mi chiese di voler essere frate cappuccino e quindi se potevo mandarlo a Quelimane per entrare nel seminario serafico Lo portai con me e si unì agli altri undici ragazzi makonde che lungo gli anni avevo mandato a Quelimane. Se devo dire la verità poca fiducia avevo circa la sua riuscita nel cammino intrapreso, forse perché lo conoscevo poco. Ma la verità sia detta: fra Ernesto Simba è stato l’unico dei dodici che ha percorso tutto il cammino della formazione fino alla professione e all’ordinazione sacerdotale. Due tappe notturne a Nampula, e a Mocuba. Passammo dalla missione di Derre, attualmente senza missionari residenti. L’ultimo missionario di questa missione è stato fra Leone Innamorato. Ora in Italia per malattia. A mezzo giorno del 20 luglio pranzammo a Morrumbala con fra Joao Baptista Nota e un altro giovane frate di cui non ricordo il nome. Avevamo una importante missione da compiere. Cercare una pen driver dove fra Leone Innamorato aveva memorizzato la sua ultima e immensa fatica: la traduzione di tutta la Bibbia in lingua Lolo. Appena la trovammo, partimmo per Mopeia. Ci aspettavano altri 150 km di strada maledetta, evitata anche dal diavolo più vecchio, per raggiungere la missione di Mopeia. Solo gli ultimi 40 km erano ragionevolmente percorribili. Arrivammo nel tardo pomeriggio. Il parroco, un prete mozambicano, era assente. Nella chiesa parrocchiale, costruita da fra Fortunato Simone, erano in preghiera un buon gruppo di persone insieme alle suore brasiliane che orientavano l’ora di adorazione. E fu la giusta occasione per pregare, lodare e benedire il Signore Gesù. Per raccontarmi davanti a lui, tutto quello che Lui sapeva meglio di me. Ma io avevo bisogno di raccontarmelo davanti a Lui, anzi di ridirmelo sotto dettatura… il Suo dettato che mi raccontava a me stesso, in modo lineare, ciò che io avevo sognato, vissuto e realizzato con le dovute correzioni. Sentivo un estremo bisogno di parlarmi di fronte al Signore di fra Fortunato Simone, compagno mio fin dal primo anno di seminario, morto il 24.11.2011. Lo colse un malore improvviso di mattina… il tempo di trasferirlo all’ospedale di Quelimane e nel pomeriggio nel silenzio più sordo terminò la sua campagna terrena. Qui lui aveva investito gli ultimi anni della sua vita creando un’associazione di contadine per la produzione di riso, granturco ed altri cereali. Aveva costruito la chiesa parrocchiale e una casa per le suore nella sede del distretto di Mopeia e arricchito tutta la missione con la presenza di una congregazione di suore brasiliane, cosa che non si era mai potuto realizzare durante i 60 anni di vita della missione! Mi sono raccontato davanti al Signore la visita a Nangololo. Una missione tra il popolo makonde: un popolo fiero che senza rinunciare alla sua identità aveva accettato la presenza di Cristo nella sua storia. Un popolo che mi è rimasto nel cuore perché mi ha preso per mano e mi ha condotto al centro della sua cultura, mi ha insegnato a parlare la sua lingua (nonostante che la mia memoria mi aiutasse molto poco!); le donne mi hanno concesso di toccare il loro ndona (cosa da evitare assolutamente per l’equivocità del gesto, ma loro mi hanno concesso questo regalo di estrema fiducia!). Ndona è un ornamento femminile che adorna il labbro superiore, mi ha fatto gustare i suoi sapori, mi ha ammesso ad assistere agli eventi fondamentali della suo cultura l’iniziazione, i funerali, i matrimoni e sua danza “nazionale” il Mapiko! E qui, davanti al Signore, grido il mio grazie a questo popolo caparbio e dolcissimo! Davanti al Signore mi sono raccontato due incontri inaspettati che mi hanno sorpreso. Il mio compagno di viaggio mentre camminavamo nel nord del Mozambico, verso Nangololo, cerca per telefono i suoi amici. Ne venne uno, uno degli ex-seminaristi di Nangololo che avevo mandato a Quelimane. Non ricordo il nome, ma ricordo che aveva un forte dolore alla gamba. Si avvicinò zoppicando, ma era ben vestito cravatta, camicia bianca e giacca. Si sedette a terra appoggiandosi alla nostra vettura. Mi guardò negli occhi e disse: «Fra Francesco ti devo dire grazie. Quello che oggi sono lo devo a te. Occupo un posto di dirigente nell’impresa in cui lavoro». Poi guardò un passante scalzo mal vestito e continuò: «Lo vedi questo poveraccio? Se non mi avessi mandato in seminario sarei stato peggio di lui. Oggi posso essere utile a me stesso, alla mia famiglia, alla società. Dirigo una grande impresa … posso aiutare persone come queste perché in seminario ho capito tutte queste cose. Grazie!» L’altro incontro fu casuale. Un giovanotto mi si avvicina per strada mentre parlavo con qualcuno. Saluta. Ascolta. E in un momento di pausa interviene e mi chiede: «State parlando di fra Francesco… sei tu?» Gli rispondo di sì e lui riprese dire: «Sei tu quel fra Francesco che tanti anni fa sei stato a Luabo? Sai? mio nonno e mio padre mi hanno parlato di te avevo proprio un grande desiderio di conoscerti. Sei ancora in Mozambico? I miei si ricordano di te e di fra Giuseppe. Mio nonno no c’è più. Mio padre è molto anziano, ma si ricorda del tuo lavoro a Perira, Sakovinho, Catchope, Mwanavina e in tanti altri villaggi. Ma di più di tutto si ricorda della catechesi che tu facevi ai giovani studenti di Luabo. Tu battezzasti mio padre. Oggi anche io sono cristiano. Grazie!» A Luabo eravamo arrivati il 21 luglio. Vi rimanemmo solo alcune ore. Il parroco, P. Cireneu non era in casa. Era impegnato in un corso. Approfittiamo a fare un giro in città e in fabrica…. Solo distruzioni! Le case distrutte dalla guerra! Non gira neppure un cane! La gloriosa fabbrica della zucchero… le immagini parlano da sole! I campi di canna abbandonati! Tutto tace! Che differenza tra queste immagini e quello che vidi nel 1971! Ma la Madre Terra e madre natura… non abbandona l’uomo impoverito dalla guerra. Ancora una volta, grazie e a Te Signore Dio Padre misericordioso. Tu non ti dimentichi dei tuoi figli… Un saluto a padre Cireneu. Gli consegno il mio testimone e la mia testimonianza su un popolo che per primo mi ha introdotto nella ricchezza di una cultura sconosciuta e ricca e di una lingua sonora, bellissima con cui ho cantato e danzato la vita, ho parlato, comunicato e ricevuto parole di gioia e di dolore, di angosce e di speranza; in questa lingua ho pregato Dio nostro Padre chiamandolo con un nuovo nome, quello che gli avevano dato il popolo Sena: Mulungu. Mi suonava male all’inizio ma quando ne compresi il significato (che tradurrei così: l’Essere che è dentro … dentro, presente, vivo, palpitante e nascosto!) l’ho sentito vivo, caldo, presente proprio come ce lo ha comunicato il Signore Gesù: Padre buono e misericordioso! Ciao Luabo! |