Arte Makonde

I visitatori del Museo Etnografico Africa-Mozambico, presso il convento dei frati cappuccini di Bari-Santa Fara, via Gen. Bellomo, 94, possono ammirare e gustare una ricchissima esposizione di arte Makonde che si esprime dalle bellissime sculture in ebano fino ai finissimi disegni dei vasi in terracotta e ad una vasta raccolta di utensili,  tutti artisticamente decorati.
Inoltre potrà gustare delle sculture policrome, espressione artistica molto rara nella scultura dei vari popoli Bantu. Le statuette vengono prodotte con l’assemblaggio di legni pregiati di vario colore: ‘sumauma-branco’ il ‘pau-rosa’ e il ‘pau-preto’.
In questo saggio Maria Rosaria Ingrosso e Michela Gallucci analizzano la ricchezza espressiva dell’arte makonde e i suoi significati simbolici.
I Makonde, abitanti dell’Africa orientale, attualmente stanziati nel Nord del Mozambico e nel Sud della Tanzania, sono un popolo fiero, testardo, abituato dalla natura a forti sacrifici, capaci di una ospitalità fraterna, ma anche di una ostiltà estrema per chi non rispetta i suoi valori. Si identificano innanzitutto con Fortemente integrati nella loro cultura, con la loro lingua, con la loro religione (quasi tutti cattolici). Sono un popolo  fiero!   

Nei primi decenni del Novecento l’Europa scopre ed ama l’arte africana del legno, al punto da ricavarne un’ispirazione liberatoria e rinnovarsi profondamente in essa, immagazzinando la sua astrazione, stilizzazione ed espressività come se fossero riferibili ad una presunta purezza ed ingenuità d’ispirazione e di tecnica scultorea, definendola “arte primitiva”. L’elevato livello di stilizzazione delle sculture della fase più antica di questa produzione, legate a pratiche magiche e a riti propiziatori, invece, ci restituisce esattamente il grado qualitativo che ha mantenuto l’espressione artistica fin dalle sue origini. Malgrado ciò, l’Europa non ne seppe valutare e valorizzare gli aspetti profondamente culturali ed evolutivi, sottovalutando la storia e la tradizione di quest’arte e del suo popolo.


Si genera così, un’analogia tra l’opera “tribale” africana e l’opera “concettuale” europea che si concretizza per i cubisti nel valore concettuale della forma scomposta; per gli espressionisti nell’illusione di recuperare attraverso queste figure così originali un mondo incontaminato e non ancora corrotto dalla civiltà industriale; per i surrealisti serve ad una più forte identificazione col mondo naturalistico. La ricchezza culturale di questi modelli merita invece uno studio specifico dell’artista e delle condizioni in cui si è generata l’opera all’interno di ogni gruppo che l’ha prodotta. Il rapporto con le fonti al contrario è spesso ritenuto inestricabile, frammentario e difficile da seguire nella sua stratificazione nel tempo. Così l’artista contemporaneo vive il rapporto con questa cultura in modo lacunoso e strumentale: Matisse resta affascinato dalla rara bellezza plastica, Picasso dalla primordialità essenziale, altri dalla semplicità geometrica della composizione, dalle forme primarie ed ideali e dalla sintesi lineare.

Il clima magico ed esotico che fa da sfondo a queste opere crea una distanza ed un allontanamento nello spazio e nel tempo che sarà funzionale alla ricerca di una nuova identità dell’arte europea del XX secolo. Superata la confusione e l’errore valutativo, riferibili al termine “primitivo”, la conoscenza della qualità estetica e formale degli oggetti d’arte negra, diviene un passaggio dominante nel rinnovamento del linguaggio figurativo della cultura artistica delle avanguardie europee, soprattutto per la nascita del Cubismo. Picasso, infatti, trova nella dimensione concettuale dell’arte negra un valido punto d’appoggio per la sua rivoluzionaria concezione spaziale. La citazione esplicita di questi modelli formali assume un preciso significato linguistico per la nuova idea di arte: se l’artista africano rappresenta la sua conoscenza del soggetto più che la sua forma reale, anche Picasso dipinge e realizza oggetti come li pensa e non come li vede. Lo scultore africano, affascinando l’artista spagnolo,presenta un nuovo modo di trattare il corpo umano che privilegia la riduzione dell’anatomia a triangoli geometrici e a losanghe, con uno spirito costruttivo e mentale che si stacca fortemente dalle convenzioni rappresentative della tradizione rinascimentale. Come resterà evidente, da un rapido sguardo ai pezzi scelti per questa esposizione, nei volti e nelle figurazioni astratte delle entità spirituali e demoniache (dette localmente Shetani), l’arte makonde si afferma senza mezzi termini come creazione di pure forme plastiche, frutto di un’analisi del modello che punta verso l’astrazione, pur non trascurando mai la verifica del reale, vero punto di partenza.
Ogni composizione ed ideazione artistica conserva uno sfondo sociale ed una caratterizzazione idealista che propone significati e passaggi storici di alto contenuto morale e collettivo. Così, radicate in una storia travagliata e sanguinaria, queste opere sono spesso espressioni più o meno esplicite di una coesione familiare prima ancora che sociale. Guardando alla famiglia quale nucleo corporativo di base essi infatti inneggiano alla libertà e alla dignità personale con composizioni fortemente simboliche che radunano in sculture compatte gli elementi costitutivi del vivere collettivo: gruppi familiari con antenati e gruppi di uomini impegnati in diverse attività; o, ancora, corpi femminili simboleggianti la maternità e la fertilità della donna e della terra. È presente spesso anche il richiamo alla virilità dell’uomo, alla mitologia (rappresentata con emblemi del tempo mitico come le maschere degli antenati e più frequentemente col serpente), alla solidarietà sociale della nuova collettività ed alla libertà ottenuta a caro prezzo.
I Makonde, abitanti dell’Africa orientale, attualmente stanziati nel Nord del Mozambico e nel Sud della Tanzania, sono organizzati in gruppi isolati e villaggi ed hanno attraversato secoli di lotte e razzie vivendo di caccia, saccheggi e tratta degli schiavi. La società makonde poligama e di discendenza matrilineare pone le donne in posizione culturalmente predominante: solo le loro tombe potevano divenire oggetto di venerazione e gli antenati di stirpe femminile essere riprodotti in statue votive e propiziatorie, così come era riservato al fratello della sposa il ruolo di capo famiglia e non allo sposo. Gli antenati, spiriti protettori della stirpe, divengono così oggetto di culto e a loro vengono portate offerte e rivolte preghiere.
Tipici di questo popolo sono i riti di iniziazione maschile e femminile e la danza del Mapiko, usata durante la circoncisione, che prevedevano l’uso di particolari maschere che garantivano l’anonimato dei protagonisti. Questa comunità ha sviluppato fino all’esagerazione l’ornamento del corpo con tatuaggi visibili e marcati. La nota più caratteristica di questo gruppo etnico è l’arte scultorea che lo ha reso famoso in tutto il mondo. 

Dopo la fase primigenia, la storia dell’arte di questo continente attraversa il periodo coloniale trasformando l’espressione artistica fin dalle sue motivazioni: l’espressione scultorea diventa più realista rivelando una profonda capacità di critica sociale verso l’occupazione e la stessa società Makonde. In questo periodo comincia la commercializzazione delle sculture promossa dagli amministratori coloniali e dai missionari; si abbandona il legno leggero Sumaumeira brava e si passa all’utilizzazione di legni più duri come il Pau-Rosa e Pau-Preto nero. Cambia anche la tecnica scultorea: dal coltello allo scalpello. Il tratto diviene più fino la rifinitura più delicata e a poco a poco si va perdendo la policromia accentuando, invece, la capacità espressiva: i gesti dell’attività quotidiana sono rappresentati fin nei più piccoli particolari. La fase più recente dell’arte Makonde si sviluppa a partire dagli anni ’70: essa si radica profondamente sulle tradizioni culturali del passato ma si inserisce con grande creatività nelle correnti più moderne di composizione estetica delle avanguardie europee. Il corpo umano viene quasi vivisezionato, mettendo in evidenza l’aspetto grottesco, ironico, spesso sensuale delle figure. L’astrazione fa parte del loro modo di vedere l’uomo, la società e la vita stessa.
La particolare qualità esecutiva di queste opere presuppone uno straordinario dominio dell’abilità manuale che si apprende solo dopo un lungo tirocinio. Margot Dias nel 1973 classifica l’arte Makonde moderna in quattro tipi scultorei diversi:
Ujaama compatto. Il nome viene dallo Swahili e significa “Famiglia”. La realizzazione scultorea si concretizza su di un nucleo di forma cilindrica intorno al quale si distribuiscono in altorilievo numerose figure umane nelle più diverse attività. Esse raffigurano generalmente fatiche domestiche esprimendo movimento e composizione ritmica. In alto si trova spesso la raffigurazione di un busto che rappresenta un antenato di generazione patriarcale.

Ujaama non compatto. In questo tipo di scultura le figure a tutto tondo sonolavorate intorno ad uno spazio vuoto, lasciando una maggiore sensazione di leggerezza rispetto al tipo precedente che si valorizzava nell’imponenza.

L’esecuzione di questa tipologia scultorea esige maggiore abilità ed una preparazione più intensa.

     Shetani. È una parola Swahili che ha origini ebraiche e può essere tradotta volgarmente in “satana” o “diavolo”. Per i Makonde però questo termine esprime un’ampia varietà di figure mitologiche pericolose e non per l’uomo. L’artista non ha limiti nell’invenzione figurativa di queste entità spirituali e può dar sfogo alla sua libertà creativa. Lo scultore parte da figure reali, umane o animali, trasformandole in esseri mitici di grande forza espressiva. Anche in questo caso la rifinitura è perfetta e il più piccolo particolare immaginato viene attentamente registrato. Il ritmo, il movimento scoordinato o la stessa staticità piena di vivacità sono le caratteristiche essenziali di queste sculture le cui estremità possono essere sottili e allungate, torsi ora magri ora grassi, teste mostruose.



Scultura in rilievo. In questo tipo di scultura le immagini sono lavorate in rilievo sulla superficie della tavola, attraversata da un lato all’altro da concavità che l’alleggeriscono. Probabilmente questa tecnica è il frutto di una contaminazione culturale poiché non ne esistono esempi nella tradizione antica.

Maria Rosaria Ingrosso e Michela Gallucci

 

Bibliografia
Riccardo Duarte, L’arte Makonde, Museo Etnografico Africa – Mozambico, Bari, Santa Fara, 1985.
Ricardo Teixeira Duarte, Escultura Makonde, Nucleo Editorial e Depatamento de Arqueologia e Antropologia da Universidade Eduardo Mondlane, Maputo, 1987.
G. Bartolomeo – M. Valerio, Museo Etnografico Africa – Mozambico, Bari, Santa Fara, 1982.
C. Bertelli – G. Briganti – A. Giuliano, La scultura negra in Storia dell’arte italiana, volume IV, pagg. 386 – 387, Milano 1992.